La battaglia per i diritti LGBTQ in Egitto

I diritti umani rappresentano un vero spartiacque tra i diversi Stati. Mancati processi di democratizzazione e regimi autoritari sono i segnali di un paese che non rispetta, né tutela i diritti umani. L’Egitto, come altri Stati del Nord Africa e del Medio Oriente (MENA), è stato protagonista di una sua “Primavera Araba” nel 2011. Il paese era guidato allora dal Presidente Hosni Mubarak, il quale nell’ultima fase del suo governo aveva dovuto fare i conti con una escalation del terrorismo di matrice islamica, affiancata da una lenta crescita economica, dall’aumento della povertà e dall’assenza di riforme. La ribellione della popolazione egiziana ha portato alla caduta di Mubarak nel 2011. Tra novembre 2011 e febbraio 2012 le elezioni politiche hanno concesso la maggioranza ai Fratelli Musulmani e le elezioni presidenziali hanno segnato la vittoria di Mohammed Morsi. A ciò è seguito un periodo di tensioni tra la Fratellanza musulmana e l’establishment militare e laico culminato con il golpe militare che ha messo fine alla Presidenza di Morsi. Nell’estate 2013 si sono verificati forti scontri tra sostenitori di Morsi e forze di polizia, il governo egiziano ha dichiarato i Fratelli Musulmani un gruppo terroristico e nel 2014 l’ex capo dell’esercito Abdel Fattah al-Sisi è stato eletto Presidente. Negli anni successivi non sono mancate le violenze dell’Isis, con attacchi e attentati, oltre all’approvazione di alcuni emendamenti alla Costituzione che hanno rafforzato il ruolo dei militari nelle istituzioni, ampliato il potere presidenziale nelle nomine dei magistrati, esteso il mandato presidenziale da quattro a sei anni e abolito il limite di due mandati per il presidente, permettendo ad al-Sisi di rimanere ancora al potere.

Fig. 1 Manifestanti a Piazza Tahrir durante le rivolte del 2011 al Cairo – Fonte: blog Sancara

Nel 2016 i rapporti tra Italia ed Egitto sono deteriorati a seguito del caso Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato morto su una strada verso Alessandria d’Egitto con evidenti segni di tortura. Le indagini avrebbero portato ad attribuire la responsabilità per il rapimento, la tortura e l’uccisione a quattro agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale. Nonostante la gravità degli esiti investigativi, le mobilitazioni delle istituzioni italiane ed europee, delle associazioni del terzo settore, tra cui Amnesty International Italia, il caso è ancora irrisolto e ad esso si è aggiunto quello di Patrick Zaki. 

I casi Regeni e Zaki hanno acceso i riflettori e spostato maggiormente l’attenzione mediatica su una piaga presente nel paese da anni: la sistematica violazione dei diritti umani. Il Parlamento europeo ha denunciato la situazione dei diritti umani in Egitto con la recente Risoluzione del 24 Novembre 2022 – 2022/2962 (RSP) adottata all’indomani della Conferenza sul clima, la COP27, che si è tenuta a Sharm El Sheikh. Il Parlamento ha fermamente condannato le intimidazioni, le molestie, le censure, oltre a detenzioni e arresti arbitrari, commessi dalle autorità egiziane nei confronti dei rappresentanti della società civile e attivisti nel contesto del summit sul clima. Il Parlamento inoltre, si legge nella Risoluzione, ha condannato la detenzione arbitraria dei prigionieri di coscienza e ha chiesto espressamente il rilascio dei giornalisti detenuti a partire dal novembre 2022, il rafforzamento della cooperazione con l’UE volta a proteggere le donne da abusi sessuali e da violenza basata sul genere, l’abolizione della pena di morte, la fine degli arresti e dei procedimenti giudiziari nei confronti di persone che hanno relazioni omosessuali e il rilascio immediato delle persone LGBTQ in stato detentivo. 

Secondo il rapporto 2022-2023 di Amnesty International, l’Egitto reprime tutte le forme di dissenso pacifico, oscura siti web, portali d’informazione, siti sui diritti umani, violando la libertà di espressione, associazione e riunione. Si documentano inoltre detenzioni arbitrarie e processi iniqui, specialmente nei confronti dei difensori dei diritti umani e degli attivisti, sparizioni forzate, torture, condanne a morte, violenze e discriminazioni sessuali e di genere. Nello specifico, si registrano casi in cui le autorità egiziane prendono di mira le persone in base al loro orientamento sessuale o all’identità di genere ed eseguono arresti di uomini e donne transgender, che hanno inoltre riferito di aver subito abusi verbali, fisici e molestie.

Eppure l’Egitto ha ratificato numerosi trattati e convenzioni in materia di diritti umani, tra cui la Convenzione contro la tortura, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, la Convenzione per la protezione delle persone dalle sparizioni forzate. Purtroppo, il quadro interno del paese appare oggi come una “primavera araba” mai sbocciata.

Tra maggio e luglio in molti paesi si celebra il Pride, una sfilata per affermare i diritti delle persone LGBTQ e condannare ogni forma di discriminazione e violenza nei loro confronti basata sull’orientamento o l’identità sessuale. Sfilare con le bandiere arcobaleno in alcuni paesi non è però concesso.

Nel documento pubblicato a marzo 2023, esperti del Comitato Onu per i diritti umani, in dialogo con l’Egitto (una delegazione formata da rappresentanti del Ministero della Giustizia, del Consiglio Nazionale delle donne, del Ministero Affari Esteri, del Comitato Nazionale per la prevenzione del traffico di esseri umani, della Procura Generale e della Missione Permanente dell’Egitto presso le Nazioni Unite a Ginevra) hanno affermato che le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender sono vittime di discriminazioni e provocazioni da parte della polizia, fatti che porterebbero ad una responsabilità dello Stato nella violazione dei diritti umani. Il Comitato ha inoltre ricordato il rigetto, da parte dell’Egitto, delle raccomandazioni date nel 2020 per contrastare la discriminazione contro lesbiche, gay, bisessuali e transgender.

L’omosessualità in Egitto non è ufficialmente illegale, ma nella pratica i comportamenti omosessuali o le unioni tra persone dello stesso sesso sono criminalizzate dalle forze di polizia e le discriminazioni sono largamente diffuse. Un recente rapporto di Human Rights Watch denuncia come l’uso dei social network abbia da un lato, permesso alle persone LGBTQ di esprimersi liberamente e dall’altro, favorito i comportamenti repressivi delle forze di polizia egiziane che, attraverso le piattaforme social o le app di dating, traggono in inganno le persone LGBTQ, utilizzando profili falsi e avanzando proposte di appuntamento, per poi sottoporle a estorsioni e molestie. In alcuni casi, la polizia egiziana ha proceduto ad arresti e detenzioni arbitrarie, sulla base di accuse infondate, seguite da maltrattamenti nei luoghi di detenzione. Una vera e propria caccia agli omosessuali e persone LGBTQ che una volta finite “nella trappola” degli agenti di polizia o di altri rappresentanti delle forze di sicurezza egiziane, vengono accusate di “dissolutezza” o “perversione”, punibile secondo la legge egiziana, insieme al reato di prostituzione. Secondo la Egyptian Initiative for Personal Rights, Ong egiziana, i casi di repressione verso le persone LGBTQ sono aumentati a partire dal 2013 insieme all’ambiguità della norma che criminalizza la dissolutezza o perversione che viene applicata anche ai comportamenti omosessuali per giustificarne gli arresti. Difficile spiegare l’accanimento contro le persone LGBTQ e la scelta repressiva dell’Egitto di al-Sisi che incarna un regime militare laico, contrapposto a quello che potrebbe essere un governo di impronta conservatrice, religiosa, con tendenza islamista radicale, come poteva essere quello dei Fratelli Musulmani.

In un contesto già precario sul fronte dei diritti umani, l’assenza di una legge che protegga i diritti delle persone LGBTQ e che condanni ogni forma di discriminazione e violenza nei loro confronti, lascia purtroppo spazio all’impunità. In questi casi, dove non arrivano gli Stati potrebbero arrivare i privati, per cui le compagnie dei social media dovrebbero adottare delle politiche e dei regolamenti interni volti a mitigare l’impatto avverso generato dal targeting digitale e contribuire in questo modo a proteggere la privacy e impedire che i diritti delle persone LGBTQ siano minacciati. Gli abusi online contro le persone LGBTQ provocano conseguenze offline, che si ripercuotono sulle loro vite, sullo stato di salute mentale e la loro sicurezza. Ne è un triste esempio la storia di Sarah Hegazi, attivista per gli omosessuali in Egitto, morta suicida nel 2020 all’età di 30 anni nella sua abitazione a Toronto, in Canada, dove viveva dal 2018 e dove aveva chiesto asilo. Sarah aveva sventolato la bandiera arcobaleno al concerto del gruppo libanese Mashrou’Leila, il 22 settembre 2017 al Cairo. Per quel gesto è stata arrestata una settimana dopo con l’accusa “di far parte di un’organizzazione illegale e di promuovere il pensiero deviante”. La detenzione è durata fino al gennaio 2018 e in carcere ha subito abusi e molestie sessuali. Sarah Hegazi non ha mai superato il trauma per le molestie e i maltrattamenti subiti in carcere, per essere stata isolata dalla famiglia, per il silenzio dei suoi amici, degli egiziani che non si espongono perché temono la repressione, per essere stata costretta a scappare dal suo paese dove sperava di ritornare un giorno – che non è mai arrivato. Il caso di Sarah ha avuto anche altre conseguenze, in quanto al gruppo musicale Mashrou’Leila, il cui cantante leader si è dichiarato apertamente omosessuale, è stato vietato di esibirsi in Egitto.

Fig. 2 Sarah Hegazi mentre sventola la bandiera arcobaleno durante il concerto al Cairo il 22 settembre 2017 – Fonte: Amr Magdi – Twitter

Alcune organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, in occasione del Pride 2020, hanno affermato che la responsabilità del suicidio di Sarah Hegazi è attribuibile alle autorità egiziane. La morte di Sarah ha acceso l’indignazione generale, oltre che degli attivisti per i diritti umani e della comunità LGBTQ in Egitto, condannando aspramente la polizia e le autorità egiziane. Anche la scrittrice e attivista egiziano-americana Mona Eltahawy ha definito il regime e la società egiziana come omofobiche. Nel suo libro “Sette peccati necessari” , presentato a Roma lo scorso 26 maggio, racconta la sua storia di leader di un movimento contro l’oppressione femminile, ribadisce la centralità dei diritti e parla di altre attiviste che hanno sfidato il sistema in Cina, India, Uganda, Brasile e in alcuni paesi occidentali.

Gli egiziani ricordano il concerto dei Mashrou’Leila al Cairo il 22 settembre 2017 come uno spartiacque, l’inizio di un’aspra persecuzione delle persone LGBTQ da parte del regime di al-Sisi. Dopo Sarah, sono state arrestate altre 75 persone e da allora la repressione continua. 

Cosa aspettarci per il futuro del Medio Oriente sul fronte dei diritti umani? I conflitti regionali, l’insicurezza alimentare, la persistente presenza di regimi autoritari nella regione Mena, oltre agli squilibri geopolitici, non favoriscono l’innesto dei processi di democratizzazione. Potremo aspettarci una nuova primavera araba dai risvolti incerti e dalle possibili conseguenze disastrose. L’impegno e le pressioni delle istituzioni regionali, come l’Unione europea, delle organizzazioni internazionali, tra cui le agenzie Onu, e l’importantissimo lavoro di ricerca, investigazione, divulgazione e denuncia delle numerose Ong, incluse quelle locali egiziane, devono conservare un ruolo centrale, così da poter contribuire efficacemente alla protezione delle persone i cui diritti sono minacciati continuamente e agire affinché la macchina della repressione perda la presa.

Francesca Cocozza